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Gente di caruggi  -  Galea

(Pietro Cambiaggio)

 

 

 

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Il santo Cottolengo, fondatore della Piccola Casa in Torino, chiamava buoni figli gli ospiti che oggi la scienza chiama “in ritardo psicologico”. Se il nostro Galea fosse vissuto al Cottolengo, sarebbe stato uno dei ciü asperti.

 

Per Pietro Cambiaggio (questo il nome di famiglia), il tempo si era fermato. Raggiunta la maturità fisica, appariva sempre della stessa età. Era un adulto che cresceva all’indietro: un eterno bambino. Per questo amava i piccoli, di cui si sentiva sempre coetaneo. Stava volentieri con loro; ci giocava; ed essi non lo scherzavano.

Galea camminava a piccoli passi, trascinando i piedi alle “dieci e dieci”. Il suo vocabolario era ristretto. Dalla frase più usata Che galea, gli era derivato il nome d’arte, con cui tutti lo conoscevano.

 

Cristiano praticante (come, in genere, tutti i “buoni figli”), in sacrestia si sentiva a casa. Aveva acquisito a memoria un patrimonio di preghiere in latino, allora lingua ufficiale della liturgia.

Ogni mattina, alle nove, Galea entrava in chiesa, dove lo attendeva l’amico Checchino Leone (Biringonni). Inginocchiati nel cappellone degli uomini (oggi, delle donne, che anche lì hanno voluto la parità di diritto), recitavano le litanie della Vergine. In questo modo: Galea pronunciava le invocazioni; mentre Biringonni ripeteva il ritornello.

Descrizione:

      Galea: Gaga Gaghia = Santa Maria  (secondo la sua pronuncia)

      Biringonni (con voce baritonale): Ora pro nobis.

      Galea: Gaga Ghei ghenighi (Sancta Dei genitrix).

      Biringonni: Ora pro nobis.

E così di seguito, per trentatré volte, quante sono le invocazioni litaniche. Alla fine del duetto liturgico, uscivano insieme, tutt’e due contenti: Checchino di avere un amico con cui condividere la preghiera; Galea di essersi guadagnato la pizzetta d-a Maria du stagnìn.

 

Anche le scenette su Petrin Galea non si contano. Un’altra simpatica è questa: costretto a letto da una bella influenza, era irrequieto perché non poteva né andare in chiesa, né trovarsi con i ragazzi. Quella sera, la cognata dovette lasciarlo solo in casa, seppur per breve tempo. Doverosa raccomandazione: Petrin, mi ho da sciurtì. Nu sta a sâtò d’en lettu. Galea assicura: Aghighé (Au-diiiè), che era una delle parole più usate.

La cognata esce a fare i servizi. Il nostro Petrin, per vincere la noia, afferra ‘na filorsa du barraccan e comincia a tirare. Il filo si allunga. Petrin, contento della trovata, pensa bene di arrotolare il filo, facendo un gomitolo, che mano a mano si ingrossa sempre di più. La cognata, al rientro, trova che il barraccan non c’è più; e Galea u spunte p’au nosu, sutt’a l’omescellu gigante.

 

Petrin amava partecipare alle attività ricreative dei ragazzi, che lo invitavano nei giochi della sede. Nel periodo pasquale, gli amici organizzavano un teatrino di scenette con finale a sorpresa: da un grande uovo di Pasqua, di carta ben colorata, esce Galea. Tutto sudato, ma felice. Applausi a volontà, mentre il simpatico Petrin scoppia di gioia nel sentirsi protagonista.

 

Soffriva pure di una forma acuta di sordità; e per sentire meglio portava sempre la mano all’orecchio sinistro. Per questa posizione inveterata, il padiglione acustico, già abbondante, era piegato in avanti a sventola.

 

In ogni paese ci sono persone che non si sono mai scambiate una parola, semplicemente perché non si conoscono, o meglio, non si trattano. Credo che ogni carlofortino, almeno una volta, abbia riso con Galea. Buon segno; perché un sorriso dice più di tante parole, quando si tratta di amici.

 

 

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Testi estratti da "GENTE DI CARRUGGI" e da "GENTE DI CARUGGI 2" entrambi di Daniele Agus

Alcune immagini sono prelevate da "CARLOFORTE, ISOLA DI SAN PIETRO" di Antonio Torchia

 

 

 

 

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