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Gente di caruggi -
Beppin du Gianchin
(Giuseppe Vallebona)
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Non pochi
genitori, e anche qualche nonno, sono orgogliosi di
aver
fatto le scuole elementari (così si dice in dialetto) col
maestro Giuseppe Vallebona.
Chi era
Beppin du Gianchin? Filippo Montano, nella premessa al
«Dizionario Tabarkino-Italiano», dice molto bene:
La sua
professione è stata quella di insegnante, ma
per vocazione è
stato un poeta, oltre che uno studioso,
uno scrittore, uno
storico. Il suo grande amore sono stati: la sua isola (S.
Pietro) e la sua gente (i tabarkini).
Il primo a
raccogliere le notizie sull’origine e lo sviluppo della
comunità carolina, fu l’ingegnere Enrico Maurandi. Partendo
dal suo famoso manoscritto, Beppin ha continuato la ricerca
dei documenti e ha completato il mosaico della storia di
Carloforte. Anch’egli rimane una fonte, da cui attingeranno
tutti i successori che scrivono su
u paize.
Con stile
forbito (talvolta ricercato), ha narrato nei particolari la
vita travagliata dei tabarkini. La
Storia di una
colonizzazione uscì, inizialmente, a puntate nel
giornalino parrocchiale
Lungo la via: un mensile
torinese, nel quale don Mario inseriva un foglio locale di
quattro facciate.
L’interesse
suscitato nei lettori deve aver incoraggiato U Gianchin a
tentare la strada dell’editoria. Nacque così la prima edizione
di
Carloforte, storia di una colonizzazione,
stampato a Genova (quasi un legame ombelicale con le origini).
Il libro vide una seconda edizione nel 1976; e una terza nel
1988, in una trilogia pubblicata in occasione del 250° della
fondazione di Carloforte.
Seguirono, via via:
Don Pagani, una vita per
il popolo (1965);
Paese mio (liriche, 1975);
Evoluzione della società carlofortina (1975);
Quell’isola verde e lontana (1986). Le sue raccolte di
poesie gli valsero premi letterari in Liguria (Chiavari e
Sampierdarena). Il
Dizionario tabarkino-italiano vide
la luce postumo (1988), quando l’amico Beppin ci aveva già
lasciato.
Di
Carloforte e della sua gente, il maestro Vallebona sapeva
tutto, virtù e vizi. Una memoria da computer, si direbbe oggi,
lo favoriva nel fotografare mentalmente notizie e particolari
scoloriti dal tempo. Niente e nessuno gli sfuggiva. Era la
coscienza critica dei tabarkini.
Abitudinario, la sua giornata era scandita da momenti che si
ripetevano con la precisione di un orologio roskoff: in
mattinata, a scuola; in serata, caffè al bar (cu-in sciàu d’egua); alcune vasche di passeggio in
piazza, in compagnia di amici, quasi a rendere omaggio a Carlo
Emanuele III; rientro a casa per la stesura degli scritti;
cena e riposo.
Beppin amava
tanto la sua isola da non desiderare di prendere il traghetto
(eccetto per qualche raro caso di necessità). Alcune occasioni
di viaggi a Genova e a Tunisi avrebbero dovuto invogliarlo a
parteciparvi; anche per documentarsi personalmente su ciò che
aveva scritto. Macché. Non c’era verso. Però sapeva tutto. E
ne parlava con competenza.
Emilio
Salgari, nei libri di avventure, descrive luoghi lontani
(compresa, forse, l’isola di San Pietro) senza averli mai
visti. Beppin Vallebona può essere considerato il Salgari
nostrano.
Non soltanto
i suoi alunni, ma tutta la comunità gli è debitrice; perché
egli ha amato la sua gente per
la sua umanità, per la
generosità, per l’attaccamento ai valori autentici delle
antiche origini.
Perciò
questa sua gente non dovrebbe dimenticarlo.
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