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Gente di caruggi  -  Carlevò

(Carnevale)

 

 

 

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I carlofortini amano divertirsi; e sfruttano ogni occasione per stare allegri. Un’occasione comune è sempre stato il carnevale. In tabarkino Carlevò (maiuscolo, perché degno di tutto rispetto).

Il periodo carnascialesco inizia il 17 di gennaio. Immancabilmente. Anche questo è indice che i carlofortini sono nati in Liguria: dove il carnevale inizia subito dopo l’epifania; e si cantano le stesse canzoni (l’è i dîssette de zenà, ecc ...).

 

Senza mancare di rispetto alla storia, crediamo che u Carlevò sia stato celebrato anche durante i cinque anni della schiavitù. Lo celebravano i deportati a Tunisi, e i rimasti a Carloforte. In fondo, non era un gesto di poco riguardo. Era un’occasione per concedersi un pò di relax. Una volta all’anno è lecito (anzi è doveroso) accantonare i guai.

 

Da sempre Carlevò è sinonimo di maschere e di balli.

 

      Maschere – Escono soprattutto l’ultimo mese. Prima dei costumi eleganti (comprati già cuciti e confezionati), i piccoli si travestivano da strugiùn, che non richiedeva molta fantasia, nè molta spesa (argomento importante per l’economia locale): un vecchio lenzuolo sulle spalle, una sciêunia dismessa per infilarvi la testa; e il gatto era fatto (con relativi quattro baffi sopra il pertugio della bocca).

La maschera strugiùn era unisex; per cui non riuscivi a capire se avevi davanti un fufi o una kika. Anche perché, passando per le strade, le maschere emettevano un verso in falsetto con voce camuffata.

Per gli adulti, maschere impegnative: domino rigorosamente nero; abbondante e uso pluriennale. Nell’ultima settimana (da giovedì a martedì grasso), anche i grandi non disdegnavano la maschera in gruppo; strugiùin un pò più gentili che amavano rendere visita agli amici.

 

      Balli – Si è sempre ballato: nelle case, in ta vigna, in teatro. In breve: au paize il ballo non è un passatempo occasionale; è un rito in cui appare l’animus tabarkinus.

Fino al secolo scorso, i teatri no esistevano semplicemente; il ballo s’. Perciò, dal 17 gennaio, i ballerini si davano appuntamento in sale private (sale per modo di dire). E l’orchestrina ripeteva all’infinito il ballo tabarkino. Poi gli antenati costruirono la Mutua e u Palassiu, unicamente con la collaborazione del volontariato..

Il liscio fu il re del momento. In mancanza d’orchestra un giradischi faceva il suo dovere. E venne il ballo a cartella, verde, bianca e rossa. I capatassi potevano acquistarsi il tricolore intero e quindi ballare ininterrottamente tutti i balli. I sensa ‘n francu si accontentavano del monocolore; e quindi ballavano solo quando usciva il colore che potevano comprare.

In sala, le coppie più o meno sfrenate; più meno che più, perché in galleria stavano i genitori, vigili falchetti che la figliola fosse stretta solo da un buon partito. In caso contrario, si anticipava l’ora dell’uscita:

  -  Cataina, a figgia cun chi a balle?

  -  Cu-u... (un abbiente).

  -  Va ben, l’à ancun bun’ua.

Dopo un pò, stessa domanda e stessa risposta: Eh, stemm’ancun in po’.

Passano cinque minuti:

  -  A figgia cun chi a balle?

  -  Cu-u figgiu d-u... (squattrinato).

  -  Cataina, retìa i scialli, che se n’anemu.

 

Sono questi gli antefatti che hanno tracciato la strada ai grandi veglioni delle scuole superiori, che furoreggeranno dagli anni settanta in poi. E questi, ormai, sono storia di oggi, che non ha bisogno di essere descritta.

 

Così anche Carnevale si personalizza tra la gente dei caruggi. È il personaggio più longevo: più vecchio di tutti gli antenati, non mollerà mai.

Perché nessuno può fermare il calendario: l’epifania tutte le feste se le porta via: poi vegne Carlevò e u sai turne a remurcô.

 

Così è stato e sempre sarà.

 

 

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Testi estratti da "GENTE DI CARRUGGI" e da "GENTE DI CARUGGI 2" entrambi di Daniele Agus

Alcune immagini sono prelevate da "CARLOFORTE, ISOLA DI SAN PIETRO" di Antonio Torchia

 

 

 

 

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