LA STORIA

 

 

 

 

> La Storia > L'incursione tunisina e gli anni della schiavitù

 

Il rientro degli schiavi (non di tutti)

 

  

Tra gli schiavi che rientrarono a Carloforte, liberati nell’estate del 1803, mancavano alcuni carolini ai quali le vicende della prigionia impedirono, in qualche modo, di essere tra quei fortunati. Tra questi si ricorda il caso di GioBatta Giera, la cui triste vicenda è in qualche modo chiarificatrice delle traversie e disavventure che debbono aver subito i carolini ed in genere gli schiavi durante la cattività.

 

GioBatta Giera ebbe la disavventura di toccare schiavo ad un Sciaus di uno dei Rais predatori, che lo maltrattava a bastonate e ad insulti; di questa situazione si lamentò con il Conte Porcile nella sua visita in terra tunisina; questi, a sua volta pregò Giuseppe Perasso di riscattarlo, liberandolo dalle mani di un padrone così crudele; furono così versati 312 zecchini veneziani per liberarlo dalla sua schiavitù.

 

Purtroppo il Giera non assaporò la sospirata libertà, come attesta la supplica della vedova Nicoletta, rivolta al Re, perchè l’aiuti a restituire la somma di 312 zecchini al Sig. Perasso, visto che il marito non godette del riscatto perchè poco dopo ammalatosi a Tunisi di morbo pestilenziale, morì. La vedova era stata fatta schiava col marito e i quattro figli. Giunti a Tunisi erano stati divisi tra diversi padroni. Ottenuta la libertà, la donna, che aveva perso tutto nel saccheggio del 1798, si trovava nell’impossibilità di saldare il prestito.

 

Tra i 117 schiavi, che morirono prima della sospirata liberazione, molti furono sepolti cristianamente nel cimitero di S. Antonio presso Tunisi, dopo aver ricevuto i SS. Sacramenti. Tra i documenti analizzati, è stato ritrovato anche l’elenco completo delle 10 femmine rimaste a Tunisi, tra cui le gemelle Teresa e Francesca Rosso, quest’ultima andata in sposa nel 1810 a Mustafà Bey, così pure il nome di quei poveri sfortunati che furono venduti al Bey di Algeri nel momento critico in cui le trattative si erano arenate.

Di questi sfortunati alcuni riuscirono a riscattarsi con i soldi della propria famiglia, come Luigi Messina e Vittorio Rivano. Più tragica fu la fine di Salvatore Armeni a cui fu tagliata la testa quando fu sorpreso nel tentativo di fuga.

 

Più documentata è la storia dei fratelli Granara uno dei quali, Salvatore, morì per le tristi condizioni di vita a cui fu sottoposto; l’altro, Giuseppe, riuscì a racimolare, grazie a enormi sacrifici, la somma necessaria al pagamento del suo riscatto e rientrò libero ma povero a Carloforte, da dove in un’accorata supplica inviata attraverso l’Intendente Generale, al Ministro delle Finanze, in data 20 novembre 1830, chiese il riconoscimento del prezzo del riscatto (580 colonnati algerini) per sollevarlo dalle tristi condizioni in cui versava la sua numerosa famiglia, somma equivalente a quella versata per gli altri carolini del Regno Sardo in occasione della loro liberazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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