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I bombardamenti a Carloforte nella

 II° Guerra Mondiale

(parte II°)  -  (di Lino Borghero)

 

 

 

  

In quella primavera ed estate del ’43 dalle varie località dell’isola di San Pietro in cui eravamo, noi ragazzi fummo testimoni di diversi episodi.

 

Carla Grosso era ai Pescetti: ricorda la mattina in cui un aereo da caccia tedesco in avaria atterrò nella vasta pianura a breve distanza dalla casa; l‘aereo proveniente dalla direzione in cui sorge oggi l’hotel Galman, era stato visto atterrare sobbalzando sul terreno irregolare. Subito fu un accorrere di gente. Dalla carlinga uscì un giovane, illeso, con la pistola in pugno, impaurito, cupo. Di quel giovane pilota Carla notò il colore azzurro degli occhi. Qualcuno cercava di tenerlo calmo dicendogli: “Stai tranquillo, sei in Italia”. Alla fine il pilota si rese conto che nessuno voleva fargli del male e fu accompagnato presso una postazione militare.

 

L’anno precedente, il 2 giugno 1942, Ottavio Scotto si era trovato col suo canotto a remi, mentre era a pesca, ad assistere all’ammaraggio forzato di un grosso aereo da bombardamento italiano, davanti allo Spalmadoreddu. Si sentì chiamare dai piloti: uno dell’equipaggio era stato ferito e si chiedeva aiuto per portarlo a terra. Ottavio si avvicinò e partecipò all’operazione: si trattava di un giovane sardo di Santulussurgiu ferito alla colonna vertebrale con conseguente paralisi degli arti inferiori. Il ferito fu adagiato sulla barca di Ottavio che lo accompagnò a terra, affidandolo alle prime cure del Dottor Giribaldi. Il ferito si chiamava Giovanni Pische: a suo nome venne intitolata la piscina di Santulussurgiu essendo diventato, nonostante la grave menomazione, un campione di nuoto. Egli non dimenticò, dopo diversi anni, di venire a Carloforte per ringraziare Ottavio dell’aiuto ricevuto.

 

Noi eravamo alle Tanche e spesso assistevamo al passaggio di aerei americani, in grosse formazioni, ad alta quota. Qualche volta lanciavano manifestini di propaganda che si ritrovavano poi tra i cespugli. Una mattina ero a raccogliere legna con mio padre. Eravamo sulle montagne di Ravenna quando si sentì vicinissimo il rombo degli aerei. Spuntarono, provenienti dalla zona di Calavinagra, lungo il canale di Genarbì, due Lightning P-38. Volavano a bassa quota inseguiti da un caccia Fockewulf. Il grigio metallico delle fusoliere degli aerei americani contrastava con i colori mimetici giallo-verde-marron del piccolo aereo tedesco.

Si udivano le raffiche delle mitragliatrici. D’un tratto vedemmo una bomba lasciare in diagonale la sagoma di uno del Lightning: la seguimmo con lo sguardo nella sua traiettoria non lontana dalle case sino a che non esplose con fragore sollevando terra ed alberi sradicati sulla cima di una collina rivestita di pini. Gli aerei sparirono in direzione del Becco. Si sentivano provenienti da varie direzioni esplosioni e raffiche di mitragliatrici. Infine il silenzio. Si sparse subito la notizia che aerei tedeschi, dopo essere stati colpiti, erano precipitati in mare davanti a Calafico.

 

 Vennero recuperati i corpi di due giovani piloti. Ricordo che nel pomeriggio io, le mie sorelle e i miei cugini coetanei assistemmo al passaggio di un carro trainato da un cavallo guidato da due nostri soldati che portavano, avvolti in un lenzuolo macchiato di sangue, le salme di due poveri giovani. I due piloti vennero sepolti nel cimitero del paese. Dopo la guerra vennero i parenti dalla Germania per riportare in patria uno di loro. La salma dell’altro venne poi traslata nel camposanto militare tedesco del cimitero di San Michele a Cagliari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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