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La pesca del corallo: strumenti di pesca
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Gli
apparecchi usati per la pesca venivano acquistati in massima
parte a Livorno e Marsiglia; essi consistevano per lo più in
congegni costituiti da pesi o rastrelli (per frantumare il
corallo) abbinati a contenitori, reti o sacchetti in cotone
(per il recupero dello stesso).
Prima di
procedere con le operazioni , il padrone ed i marinai
rivolgevano una preghiera propiziatoria a San Pietro,
protettore dei pescatori. Quindi si dava inizio alla pesca;
calato l’attrezzo che trascinava la lunga gomena arrotolata
sul fondo della barca, si attendeva che questo toccasse il
fondale corallino e facesse presa; il padrone dava quindi
degli strappi al cavo, ritirandolo e lasciandolo ricadere
alternativamente. Una volta frantumata la vegetazione
corallina, si procedeva al recupero dei frammenti con
l’ausilio delle reti.
Ma questi attrezzi spesso non bastavano;
era quindi necessario che qualcuno scendesse sottacqua con la
muta da palombaro e, lavorando di mazza, piccone e tenaglie,
estrasse dal fondo i pezzi più grossi e più belli.
Vengono qui di seguito
indicate le attrezzature ed arnesi per la pesca più
frequentemente usati dai corallari carlofortini:
• Ingegno a croce: era dello
stesso tipo che usavano anche i pescatori di Bosa; constatava
di due grossi travi di legno forte (Coscioni)
lunghi circa 70 cm e fissati in croce l'uno sull'altro. Nel
punto di intersezione vi era adattato
un grosso pezzo di ghisa
o di ferro o di piombo rotondeggiante e forato nel mezzo per
dar passo ad una robustissima corda o cavo di canapa la cui
lunghezza era variabile a seconda della profondità del
luogo di pesca.
All'estremità di ciascuna trave erano
assicurate delle reti, pure di canapa a grosse maglie,
pendenti a fiocchi più o meno voluminosi (Cevi).
• Torta o Tortolo: serviva per
liberare l'ingegno quando rimaneva incagliato tra gli scogli.
Si trattava di un anello o disco di ferro del peso di circa 80
kg per le barche da 15/20 tonn. e solo di 20/30 kg per le
barche più piccole. Questo attrezzo veniva fatto scorrere
lungo il cavo dell'ingegno per far sì che
cadesse con
violenza sulla roccia corallina rompendola e lasciando
libero l'ingegno. Tale operazione veniva spesso ripetuta più
volte per avere successo.
• Sbiro: era un pezzo di legno
ottagonale, lungo 80 cm per le barche più grosse e solo 50 cm
per quelle più piccole; il diametro della parte
superiore era
di 27 cm, quello della parte inferiore di 34 cm. Nella parte
superiore erano fissati alcuni pesi di ferro o pietre
di 4 kg ciascuno, un solo grosso peso nella parte inferiore.
Sugli spigoli di ciascuna faccia dello sbiro erano fissati
grossi chiodi con lo scopo di far presa sulle reti
dell'ingegno. Lo sbiro veniva fatto scorrere mediante una
gassa lungo il cavo dell'ingegno perché potesse far presa
sulle reti e con forti strattoni, con l'aiuto
dell'argano o con la forza delle sole braccia riuscisse a
liberarlo e recuperarlo per continuare la pesca.
A Carloforte e in
altre località della Sardegna veniva anche usato l'Ingegno
chiaro, formato da due aste di legno lunghe dai 6
ai 7 metri per le barche più grosse, fissate a croce come nel
caso precedente e zavorrate; alle quattro estremità erano
saldamente innestati quattro raspini di ferro a denti
ricurvi e dotati di un robusto pezzo di rete a maglie
fitte il cui scopo era di recuperare frammenti di corallo che
venivano staccati dall'azione dei raspini.
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